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Art0022
01-novembre-2021
Mauro
Lenti
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Deprivatizzare lo stress al di là della terapia

Lo scorso settembre ha fatto il giro del social la notizia della sposa presentatasi in abito bianco per la firma del contratto annuale che le permetterà di insegnare come docente di matematica all’istituto Majorana di Martina Franca. «[…] Aveva un impegno molto importante ma ha trovato il modo di venire comunque a scuola. Auguri Carmela, sei già entrata nei nostri cuori», queste le parole dedicate dall’istituto alla neoassunta, alle quali il Corriere della Sera aggiunge: «non è strana l’urgenza con cui ha dovuto accettare l’incarico: molti insegnanti hanno ricevuto la pec di convocazione alle 22 del giorno prima per il giorno dopo e alcuni anche la mattina stessa»i. Tralasciando gli stili di comunicazione che questa notizia ha attraversato nei canali mainstream, i quali si collocano in una gamma che va dal romantico-celebrativo, come i toni usati nella comunicazione dell’istituto, al realista-disilluso dei quotidiani, questo episodio ci permette di prendere in considerazione ed attualizzare alcuni concetti base della critica accelerazionista alla condizione psicologica dell’individuo nel tardo capitalismo.

Essere un lavoratore/trice precario/a vuol dire anche, e forse soprattutto, questo: non poter stabilire una qualsiasi routine, non poter prendere impegni a breve o a lungo termine, in poche parole, non poter pianificare né progettare la propria vita e, di conseguenza, non disporre realmente né di se stessi né del proprio tempo se non in misura decisamente limitata. In questi termini Mark Fisher, riprendendo la testimonianza di Ivor Southwood, descrive la condizione dell’individuo immerso nel realismo capitalistaii. Tale condizione si esplica in maniera duplice poiché, da una parte, si sottrae fisicità e concretezza all’individuo che diviene talmente astratto da dover essere perennemente a disposizione, quasi ubiquo (come la docente che non può sottrarsi dal cogliere l’offerta dell’istituto ma, allo stesso tempo, ha l’urgenza di presiedere alle sue nozze), in cambio gli si consegna un dono personale da trattare e a cui porre rimedio in solitudine, ovvero le conseguenze potenzialmente patologiche di questa smaterializzazione, è questo che possiamo intendere come uno dei tanti esempi del processo di privatizzazione dello stress.

La privatizzazione dello stress può essere compresa come la controparte speculare della condizione di mercato ideale del pensiero neoliberista. Dalla parte delle imprese e dei loro CEO si predica il mantra del “profitto individuale e perdita comunitaria” per cui quando gli affari girano bene la fetta grande del ricavo spetta al corpo manageriale e gestionale, il vertice della piramide, quando invece si entra in fase calante e si inizia a dover richiedere sacrifici (si veda la fase finale della prima ondata pandemica), si pretende una distribuzione non meramente equa ma addirittura eguale dei costi della perdita. Per quanto riguarda la prospettiva psicologica dell’individuo, il principio a cui tutti siamo esposti è precisamente l’opposto. La valorizzazione della persona viene riconosciuta possibile solo all’interno di una specifica struttura sociale, ovvero quella capitalistica, d’altronde non ci sarebbero self-made men fuori dalla specifica narrazione dell’American Dream. Al contrario, nel momento in cui l’individuo inizia a mostrare segni di disadattamento psichico, si opera con un colpo da maestro un’inversione atta a limitare la discussione sull’eziopatogenesi a fattori riferiti alla persona, siano essi riconducibili all’esperienza infantile, alla costituzione biologica, alla motivazione e così via. Fisher riprende questo discorso concentrando lo spunto critico (dal punto di vista terapeutico) sull’utilizzo dei farmaci i quali, come strumenti di “tamponamento” dei sintomi, si sono spesso mostrati di difficile conciliazione con prospettive teoriche secondo cui i sintomi sarebbero tutt’altro che spie di deviazioni da un’ideale di “salute mentale”, bensì rappresenterebbero una via specifica attraverso cui la persona esprime la sua sofferenza, le sue difficoltà e in ultima analisi se stessa.

Chiaramente il discorso è ben più complesso e non può essere ridotto alla diatriba sul ruolo dei farmaci, e questo si evince chiaramente dalle riflessioni dello psicologo britannico David Smail, a cui Fisher rimanda con frequenza, che nel suo testo The origins of Unhappiness getta uno sguardo critico sulle varie scuole cliniche coinvolte nella promozione della privatizzazione dello stressiii. Il testo di Smail è a tutti gli effetti un testo di denuncia che porta sul banco degli imputati la professione dello psicologo nel periodo del tardo capitalismo. La domanda implicita che sottende a questo lavoro è una domanda di eco basagliana che, riferita alla professione non più del solo psichiatra ma anche dello psicologo, assume una portata ancor più universale, in quanto l’urgenza della questione tocca chiunque in prima persona. Chi è in definitiva il vero referente del professionista? L’utente o il suo datore di lavoro?

Iniziamo col dire che non esiste una risposta assoluta a questa domanda. Volendo essere il più moderati possibile potremmo sostenere che entrambi beneficino del compito del terapeuta. Per citare un cliché psicanalitico, è vero che in terapia si è sempre almeno in tre, ma forse il terzo in comodo non è tanto la madre del paziente quanto il suo capoufficio. Per l’utente sembrerebbe superfluo specificarne la motivazione (in realtà lo è meno di quanto si potrebbe pensare), meno immediato è comprendere il coinvolgimento del datore di lavoro. Il dubbio si risolve facilmente nel momento in cui vediamo l’esperienza dell’utente da un punto di vista sistemico-ambientale, dunque considerando che alzare l’asticella adattiva del comportamento dell’utente è un buon servizio reso a chi trarrà vantaggio dalla sua riacquisita produttività (servizio, beninteso, per cui il datore di lavoro solitamente non sgancia un soldo). Il primo problema da affrontare non è sulla natura del sostegno che il professionista può offrire o su ciò che l’utente può fare per collaborare ma, a mio parere, riguarda come agire per liberarci da questa sgraditissima e ingombrante presenza.

Liberarsi da questo fantasma è necessario innanzitutto per definire il vero obiettivo del percorso che, come risaputo, spesso non è ben chiaro, soprattutto dalle prime sedute. È anche per questo che la terapia fa paura, si è sempre esposti al pericolo di scoprire qualcosa su di noi che non ci piace, qualche difficoltà che non sapevamo nemmeno di avere. Il rischio principale mancando questo passaggio è quello di non star facendo veramente terapia ma di star subendo una “riparazione” o un “aggiornamento”, secondo i dettami di ciò che il costrutto ambientale ci richiede. Sia chiaro, non ho intenzione di sostenere che la terapia non debba tenere conto dell’ambiente in cui una persona vive la propria quotidianità, al contrario, ritengo che l’unico modo per capire come l’ambiente e la persona sono profondamente interconnessi sia quello di distinguere in prima battuta il sistema-Io dal sistema-mio-ambiente, riconoscere la scrittura dell’apparato sociale e scinderla dalla superficie di registrazione. L’interessante di questa fase è che davvero poco è nelle mani del professionista ma gran parte di questo lavoro di “lisciatura”, propedeutico alla terapia, è nelle mani del solo utente.

Ma in cosa consiste concretamente questo processo? Non può che consistere nell’azione diretta e immediata atta invertire e contrastare la privatizzazione dello stress, laddove questa nuova deprivatizzazione dev’essere intesa in almeno due sensi. In un significato più immediato deprivatizzare vuol dire comunicare al pubblico: riconoscere difficoltà, sofferenze, incapacità e fallimenti e farli sapere agli altri, rendergli noto lo stile della propria personale deviazione dalla norma. Il terapeuta non deve e non può essere l’unico referente di queste informazioni, è una questione troppo delicata e urgente per essere affidata alla cura e all’attenzione di un’unica soggettività, per quanto affidabile e competente possa essere. Il terapeuta dev’essere una delle varie finestre sul mondo, sempre affermando il valore della sua specifica esperienza professionale, delle sue conoscenze e della varietà dei suoi approcci. Ma forse ancora più importante, deprivatizzare lo stress deve significare riconoscere i caratteri estrinseci dei fattori scatenanti che concorrono a definire la sofferenza psichica. Smail usa il concetto di field of Power (che tradurrei come “campo di forze”) per descrivere e classificare le varie categorie di vettori che danno forma all’esperienzaiv, patologica o meno, della persona. “Perché stiamo male? Quali sono i compiti evolutivi a cui non siamo in grado di rispondere? Chi li ha decisi questi compiti? Su quali basi li riteniamo rilevanti? Attraverso quali vie intermedie tali compiti ci vengono imposti? Le forze che sottendono a queste vie sono immodificabili? Cosa ci ostacola dal portarli a compimento?”. Queste sono solo alcune delle domande che sarebbe bene porsi prima di intraprendere un percorso terapeutico, con il preciso obiettivo di riconoscere il carattere contingente e dissolto del proprio Io nella sua esperienza di vita, ben consci del fatto che “volere” non è quasi mai “potere”. Allenarsi alla disgregazione, riconoscere la piccolezza e la fragilità di noi come soggetti ma anche elevare queste vulnerabilità affidandogli la possibilità di una critica iperbolica e universale che non risparmi ideologia, sistemi di potere, biologia e la materialità stessa. Solo in questo modo potremo iniziare a capire come la sofferenza della nostra condizione sia primariamente e irriducibilmente un problema non privato bensì comunitario e politico.


i Martina Franca, la prof di matematica firma il contratto vestita da sposa, «Corriere della Sera», 7 settembre 2021.
ii Cfr. Mark Fisher, Il nostro desiderio è senza nome, Minimum Fax, 2020, pp. 76-77.
iii Cfr. David Smail, The Origins of Unhappiness: a new understanding of personal distress, HarperCollins, 1993.
iv Cfr. D. Smail, The Origins of Unhappiness, pp 56-92.

 
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