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Art0014
15-dicembre-2020
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Quali sono i 5 ideali su cui si fonda la folk politics

Con l’espressione folk politics si fa riferimento alla principale critica che il pensiero accelerazionista rivolge alla sinistra contemporanea. Il concetto, formulato da A. Williams e N. Srnicek all’interno dell’opera Inventare il futuro: per un mondo senza lavoro, fa riferimento a quell’insieme di presupposti strategici che costituirebbero la ragione della continua inefficacia della sinistra nella lotta per il superamento del capitalismo. Gli autori identificano 5 ideali che rappresentano in maniera chiara i principi della folk politics. Ognuno di questi è pervaso da un comune senso di immediatezza che punta a privilegiare successi diretti, locali e temporanei all’articolazione di una progettualità complessa e astratta, finalizzata all’effettiva trasformazione del capitalismo.


Orizzontalismo


Consolidatosi negli anni ’70 assieme ai movimenti di protesta statunitensi, proiettato nel mainstream grazie a zapatisti, attivisti no global e movimenti anti-austerity, l’orizzontalismo è oggi diventato il principale filone della sinistra radicale. In risposta al fallimento delle politiche “stato-centriche”, i movimenti orizzontalisti propongono di trasformare il mondo a partire dal cambiamento dal basso delle relazioni sociali, traendo ispirazione da una lunga traduzione teorica e pratica condivisa dall’anarchismo, dal comunismo consiliare, dal comunismo libertario e dall’Autonomia. L’obiettivo è cambiare il mondo senza prendere il potere: alla base di questi movimenti c’è quindi il rifiuto dello stato e delle istituzioni, e il privilegiare la società intesa come spazio da cui dovrà emergere il cambiamento. L’orizzontalismo rifiuta i progetti egemonici, considerati intrinsecamente tirannici per proporre al loro posto una politica basata sui gruppi di affinità: piuttosto che promuovere un’ascesa al potere verticale dello Stato, sostiene l’incontro tra individui al fine di costruire le proprie comuni autonome e autogovernare le proprie vite.

Gli autori accelerazionisti identificano 4 precetti che guidano l’ideale dell’orizzontalismo:
  1. Rifiuto del dominio: spingendosi oltre le tradizionali preoccupazioni della vecchia sinistra (ovvero Stato e Capitale), l’orizzontalismo sottolinea i vari modi in cui altri tipi di autorità - razziale, patriarcale, sessuale, ecc… - continuano a strutturare la società. Attraverso questa radicale riflessione sul tema del dominio inteso in tutte le sue forme, l’orizzontalismo ne rifiuta gli assunti fino ad arrivare all’estremo di scontrarsi con i limiti intrinseci della folk politics: perseguendo infatti l’immediata e diretta cancellazione dei rapporti di dominio, questi movimenti o ignorano le forme meno percepibili di controllo, o si rivelano incapaci di costruire nuove strutture politiche alternative in grado di dare vita a nuove relazioni sociali prive di queste espressioni di dominio.
     
  2. Eccesso di democrazia diretta e consensualismo: nell’ideale di orizzontalismo il rigetto di qualsiasi forma di autorità e controllo si esprime nel rifiuto di ogni struttura decisionale gerarchica, così come in una critica dell’idea stessa di rappresentanza, sia in senso concettuale che politico. All’interno di questo paradigma, queste strutture verticali devono essere rimpiazzate da forme di democrazia diretta che privilegino l’immediatezza sulla mediazione, laddove si abbia la possibilità di insistere sul personale oltre che sul politico. La democrazia diretta diventa quindi il valore supremo su cui fondare la progettualità politica, secondo quell’intuizione tipica della folk politics secondo la quale l’immediato è preferibile a qualsiasi mediazione. Il risultato è uno spostamento di focus sul processo piuttosto che sull’obiettivo. Detto in altri termini, si sperimenta un eccesso di enfasi sul raggiungimento del consenso durante il processo decisionale, piuttosto che sul perseguimento di un obiettivo finale concreto e veramente emancipatore. Ciò si manifesta spesso nelle assemblee generali (l’organo decisione caratteristico dei movimenti orizzontali) laddove la necessità di ottenere il consenso a ogni livello decisionale ha spesso portato a formulare proposte generiche e poco attuabili, e a una paralisi decisionale su quelle tematiche complesse e di difficile articolazione.
     
  3. Impegno in una politica prefigurativa: forte di una lunga tradizione, in particolare dall’anarchismo di Kropotkin e Bakunin in poi, la politica prefigurativa è quella che punta a incarnare fin da subito il mondo che verrà, modificando il modo in cui gli individui si relazionano al fine di sperimentare già nel presente un avvenire postcapitalista. In altre parole, cerca di instaurare un mondo nuovo sin da subito, facendo perno su quell’intuizione implicita tipica della folk politics secondo cui l’immediatezza sia superiore ad approcci più mediati. Mentre nelle sue migliori incarnazioni la politica prefigurativa cerca di dare forma a impulsi utopici nel tentativo di proiettare il futuro già nell’oggi, nelle sue forme peggiori l’insistenza sulla prefigurazione si trasforma nel dogma secondo il quale i mezzi devono corrispondere ai fini, senza una reale consapevolezza delle forze strutturali opposte. La conseguenza è la costruzione di una progettualità che non trasforma, bensì semplicemente “sospende” il mondo presente, finendo per non riuscire a traslare la lotta politica da una dimensione particolare a universale. Le comuni anarchiche che si sviluppano “fuori” dal sistema capitalistico sono un esempio di politica prefigurativa che incarna queste limitazioni.
     
  4. Enfasi sull’azione diretta: all’interno di una dimensione tipicamente folk dove si predilige il diretto, l’immediato e l’intuitivo a qualsiasi forma di istituzione o mediazione, l’azione diretta costituisce la soluzione più comunemente perseguita. Si tratta di una pratica che include un grande numero di possibili tattiche, dalle teatrali proteste in stile situazionista agli scioperi selvaggi e al blocco dei porti, fino all’incendio di appartamenti di lusso e così via. Nonostante sia in effetti la forma più utile ed efficace di protesta, spesso essa si dimostra insufficiente ai fini di un cambiamento duraturo: in termini strutturali, in tutti i quei casi in cui l’azione diretta non trova posto all’interno di una più generale e ambiziosa progettualità politica, essa rappresenta niente più che un ostacolo solo temporaneo per i poteri di Stato e Capitale.

L’orizzontalismo costituisce il primo e più importante fra gli ideali che incarnano la folk politics. Nell’analisi a esso dedicata, Williams e Srnicek portano in campo due esempi storici a sostegno della loro critica: da una parte il fenomeno di Occupy Wall Street, il grande ciclo di movimenti di piazza che nel 2011 sollevò in tutto il mondo istanze dal carattere rivoluzionario contro disuguaglianza, debito e finanza; dall’altra l’esplosione di enormi proteste popolari in Argentina verso la fine del 2001, dopo che il Paese era stato colpito da una pesante recessione nel 1998. In entrambi i casi si è trattato di esperienze di lotta dalle straordinarie potenzialità, ma che a causa di un atteggiamento politico folk che dava eccessiva enfasi all’ideale dell’orizzontalismo, si sono rivelate poco più che reattive e destinate all’insuccesso nell’arena del capitalismo globale.


Localismo


Meno radicale dell’orizzontalismo è il valore del localismo. Si tratta di un’ideologia che si è diffusa ben al di fuori della sinistra, riuscendo a penetrare contemporaneamente le politiche dei pro-capitalisti come degli anticapitalisti, della cultura mainstream come di quella più radicale, assumendo spesso le forme di una specie di nuovo senso comune. Alla sua base c’è la convinzione che la natura astratta e le inconcepibili scale del mondo moderno siano la radice di tutti i problemi politici, ecologici ed economici, e che la soluzione risieda dunque nel "piccolo è bello". Nelle sue molteplici varianti, dal comunitario di destra al consumismo consapevole fino alle pratiche anarchiche contemporanee, il localismo promette agli individui concretezza e praticità grazie a una politica dagli effetti riscontrabili e immediati.

Il problema del localismo è tuttavia che il senso di consapevolezza e controllo che deriva dalle sue pratiche è fuorviante: in effetti, nel tentativo di ridurre i problemi sistemici su larga scala a una sfera di più semplice gestazione, esso ignora la natura interconnessa del mondo attuale. Questioni come lo sfruttamento globale, il cambiamento climatico, la crescita della popolazione mondiale e le diverse crisi che stanno attraversando il capitalismo, assumono forme astratte e strutture complesse oltre che non localizzate. Benché la loro influenza sia avvertibile anche a livello locale, di fatto i problemi sistemici e astratti, per essere risolti, richiedono soluzioni altrettanto sistemiche e astratte. Il localismo fallisce dunque nella progettualità politica perchè ignora la natura complessa e astratta - universale e non particolare - del mondo attuale, proponendo soluzioni immediate e locali, e perciò inefficaci su larga scala.

Nella loro trattazione Williams e Srnicek portano avanti un’analisi su alcuni esempi di localismo di sinistra che esprimono chiaramente le limitazioni tipiche della folk politics:

  1. Slow Food: il movimento Slow Food nacque in Italia negli anni ’80 come forma di protesta contro la rapida espansione delle grandi catene di fast food. Come lascia intendere il nome, Slow Food difende una cultura del cibo che evoca i benefici di uno stile di vita lento, che supera le difficoltà e i ritmi forsennati del capitalismo per tornare a una cultura antica che assaporava i pasti per davvero e che si fondava su tecniche di produzione antiche di secoli. Il problema di questo movimento, come riconosciuto anche dai suoi più convinti sostenitori, è che è difficile vivere uno stile di vita genuinamente slow poichè sono in pochi ad avere il tempo, i soldi, l’energia e la disciplina per essere uno “slow foodie” modello. La ragione di questa limitazione è che Slow Food non riesce a sviluppare quell’analisi fondamentale di come le nostre vite vengano strutturate da pressioni economiche, sociali e politiche che rendono assai più conveniente mangiare cibi precotti che uno stile di vita slow. Il modo in cui è strutturata la vita lavorativa, per esempio, con i suoi incessanti ritmi produttivi e una persistente scarsità di tempo, è un’importante motivazione“sistemica per cui la maggior parte della popolazione smette di cucinare. Come tante altre forme di consumismo critico, Slow Food non è davvero in grado di pensare su larga scala, né di stabilire come le proprie idee possano funzionare all’interno del più ampio spettro del capitalismo.
     
  2. Locavorismo: per locavorismo si intende quella corrente di pensiero che privilegia il consumo di cibo locale. Rispetto a Slow Food il locavorismo è più esplicito nel presentarsi come alternativa politica alla globalizzazione, ma lo fa rimandando ancora una volta a un’impostazione folk: esso prova a risolvere questioni complesse appiattendole su una semplice logica binaria in cui “globale è cattivo” e “locale è buono”. Enfatizzando le virtù del locale rispetto al globale, dell’immediato rispetto al mediato, esso rifiuta di prendere in considerazione l’intero sistema alimentare globale. Come affermano Williams e Srnicek, infatti, è assai probabile che il metodo ideale per una produzione alimentare su scala mondiale sarà un insieme complesso di iniziative locali, pratiche per la coltivazione industriale, e sistemi di distribuzione globale, e non solo un sistema dove ognuno è chiamato a impegnarsi per consumare i prodotti del proprio territorio.
     
  3. Il mito delle economie locali: l’incapacità di affrontare le complesse questioni globali emerge con estrema chiarezza se si guarda al mondo del commercio, delle banche e dell’economia: in seguito alla crisi finanziaria del 2008, a sinistra si sono sviluppate varie scuole impegnate a immaginare una riforma dei nostri sistemi economici e monetari. Una fetta importante si è concentrata sull’idea di trasformare i sistemi economici attraverso processi di localizzazione. Campagne come Move Your Money, ad esempio, hanno insistito sull’idea che, se la colpa della crisi finanziaria è delle banche, i risparmiatori farebbero meglio a spostare i propri soldi verso istituzioni più piccole e virtuose. Ma questo modello ignora completamente le complesse astrazioni attorno a cui ruota il sistema bancario moderno: il denaro circola in maniera istantanea su scala globale, immediatamente interconnesso con tutti gli altri mercati. Ogni volta che una piccola banca o credito cooperativo ha più denaro depositato di quello che riesce a reinvestire localmente, inevitabilmente reinvestirà sul mercato finanziario globale. Un’analisi dei conti di alcune piccole banche statunitensi rivela appunto che queste contribuiscono ai mercati finanziari globali tanto quanto qualsiasi altro istituto. Se davvero si desidera affrontare i problemi sistemici del mondo finanziario, occorre risconoscere che questi possono essere risolti solo smantellandone il potere, e questo è un risultato che si può ottenere o tramite appositi progetti legislativi (come per breve tempo avvenne nel dopoguerra, ai tempi delle politiche keynesiane) o tramite metodi rivoluzionari.
In sintesi il localismo, in tutte le sue forme, rappresenta un tentativo di sfuggire ai problemi e alle politiche di scala che sono il cuore di sistemi estesi come l’economia, la politica e l’ambiente: ma essendo i nostri problemi sempre più sistemici e globali, richiedono come tali risposte altrettanto sistemiche. Certamente l’iniziativa deve sempre prendere forma a livello locale, ma quando confina nell’ideologia, il localismo si spinge al punto di rifiutare qualsiasi analisi sistemica capace di guidare e coordinare le diverse iniziative locali, rinunciando così a frenare e potenzialmente rimpiazzare le forze oppressive del potere globale ed evitando di affrontare le minacce che incombono sul pianeta.

Nostalgia


Poichè la folk politics privilegia soluzioni immediate e locali all’articolazione di progetti astratti, complessi e sistemici, la diretta conseguenza di questo processo è lo spostamento dei desideri di emancipazione verso quei traguardi già raggiunti nel passato. Non potendo infatti cavalcare la modernità capitalista per riformattarla verso un suo superamento, il massimo della radicalità della sinistra è divenuto il vecchio sogno socialdemocratico, spesso colorato da un romantico senso di nostalgia verso “i gloriosi anni ’70”.

All’interno della critica accelerazionista, tuttavia, qualsiasi atteggiamento nostalgico verso il passato socialdemocratico va rigettato in maniera assoluta. Secondo Williams e Srnicek le condizioni che a suo tempo resero possibile la socialdemocrazia oggi non esistono più: la fantomatica età dell’oro del capitalismo si fondava sul paradigma di produzione della fabbrica pacificata, dove i lavoratori (bianchi, uomini) ricevevano sicurezza sociale e un tenore di vita basilare in cambio di noia sconfinata e repressione. Era un sistema che dipendeva a livello internazionale da una gerarchia di imperi, colonie e periferie sottosviluppate, a livello nazionale da una gerarchia razzista e sessista, e a livello familiare da una gerarchia molto rigida di assoggettamento delle donne. Inoltre, la socialdemocrazia poggiava su un peculiare equilibrio tra classi (e la disponibilità delle parti di scendere a compromessi) diventato possibile soltanto dopo le distruzioni senza precedenti causate dalla Grande Depressione e dalla Seconda Guerra Mondiale, e sotto la pressione della minaccia esterna rappresentata da comunismo e fascismo. Pur comprendendo la nostalgia che in molti continuano a provare nei suoi confronti, la critica accelerazionista afferma che quello socialdemocratico è un regime il cui ritorno non solo è impossibile, ma anche indesiderabile. «Possiamo fare di meglio» è quanto si afferma nel pensiero accelerazionista, poichè l’adesione all’ideologia del lavoro e della crescita implica che qualsiasi modello socialdemocratico sarà sempre e inevitabilmente dalla parte del capitalismo anziché delle persone.


Resistenza


Un’altra caratteristica della sinistra contemporanea è la diffusa celebrazione del concetto di resistenza. Si prendano ad esempio i sindacati: il loro modo di opporsi al neoliberismo si ritrova in slogan come “salviamo la salute pubblica” o “fermiamo l’austerity”. Si tratta di richieste che, già nel senso del movimento, non esprimono un’attività quanto un piuttosto una reattività. Resistere è di per sé un atto conservatore, che mira a difendere quanto si ha già, piuttosto che costruire un mondo nuovo. Stando a rivendicazioni del genere, il risultato migliore in cui sperare consiste nel piazzare piccoli ostacoli sulla strada del capitalismo più predatorio, ed è in questo che si ritrova l’ideologia della folk politics.

L’ideale della resistenza è riscontrabile nella maggior parte delle proteste radicali contemporanee, le quali sorgono spesso come diretta reazione ad un attacco di Stato o Capitale, e successivamente faticano ad organizzarsi e ad articolare rivendicazioni capaci di andare al di là della semplice minaccia subita. Il problema di questo approccio risiede nella sua natura intrinsecamente conservatrice: per quanto l’ideale della resistenza sia infatti efficace nel ricompattare un fronte di identità plurali nel momento in cui subiscono un attacco, esso diventa inutile quando si tratta di costruire un mondo nuovo. Il risultato è che si finisce per resistere, chiusi all’interno di una posizione manifestamente difensiva, mentre i progetti più concreti vengono considerati nient’altro che fantasie.


Fuga


Alcuni movimenti propongono un atteggiamento di rinuncia e ritiro affinché l’individuo possa finalmente astrarsi dall’ordinamento sociale esistente. L’orizzontalismo in particolare è profondamente legato a questo criterio tutto basato sul ripudio delle istituzioni e la creazione di forme di comunità autonome. Approcci di questo tipo nascono spesso in esplicita opposizione alle società complesse, e quindi l’esito implicito è una qualche forma di comunitarismo o anarco-primitivismo. Altri ancora suggeriscono forme di invisibilità per evitare di essere individuati e repressi dallo Stato. All’estremo, alcuni arrivano a proporre una specie di survivalismo di sinistra, del tipo: se il progresso è una catastrofe allora non resta che eclissarsi, ritirarsi in comunità ristrette e imparare a coltivare ortaggi, a cacciare, a difendersi, a curarsi da soli.

Il problema di posizioni che predicano il ritiro e la fuga (oltre al fatto di essere poco attraenti) è che troppo facilmente confondono l’idea di una logica sociale separata dal capitalismo con una che ne sia, invece, antagonista. Approcci di questo tipo infatti non rappresentano una minaccia per le logiche del capitalismo, il quale per sua natura non è per nulla incompatibile con l’esistenza di pratiche e spazi di autonomia. A dimostrazione di questa affermazione, Wlliams e Srnicek chiamano in causa il paese spagnolo di Marinaleda, secondo loro un ottimo esempio di come il capitalismo riesca a riprodursi benissimo anche a fianco di queste pratiche di fuga. Nel corso di tre decenni, questa piccola comunità di 2700 abitanti ha costituito un’”utopia comunista” che ha espropriato terreni, costruito case e cooperative, mantenuto bassi i costi di vita e dato lavoro a tutti. Ma i limiti di questo approccio si sono manifestati subito nella loro incapacità di trasformare effettivamente il capitalismo circostante: i materiali per la costruzione delle case sono stati forniti dal governo regionale e i sussidi per l’agricoltura dall’Unione Europea, i posti di lavoro vengono sostenuti dal rifiuto di utilizzare macchinari, i guadagni provengono ancora dalla vendita dei beni sul mercato globale, e il commercio rimane soggetto alla competizione capitalista nonché alla crisi finanziaria.

Marinaleda è solo un esempio di come il progetto di ritirarsi, fuggire o uscire dal capitalismo è ancora interno all’orizzonte proprio della folk politics, secondo cui la difesa di piccoli fortini di autonomia resta il meglio a cui si possa ambire. La critica accelerazionista invece sostiene che non solo si può sperare (e ottenere) di più, ma che in assenza di un confronto più ampio e sistematico anche queste piccole oasi di resistenza rischiano di essere espugnate con fin troppa facilità.


Conclusioni accelerazioniste


Orizzontalismo, localismo, nostalgia, resistenza e fuga sono tutti ideali che incarnano, ciascuno in modi diversi, i principi della folk politics. Sono senz’altro criteri che rimangono inadeguati al compito di trasformare il capitalismo, ma questo non significa che vadano rigettati. La posizione accelerazionista sostiene che all’interno di questi metodi sopravvivono numerosi elementi importanti e che andrebbero conservati. Piuttosto che essere intrinsecamente dannosa, infatti, la folk politics andrebbe semplicemente considerata parziale, temporanea a insufficiente. Se è vero che, semplificando un po’, tutta la politica è locale, è altresì vero che le tendenze attualmente influenzate dalla folk politics si irrigidiscono nel sicuro rifugio localista per evitare i problemi di una società astratta e complessa. Come affermano Williams e Srnicek: «tutta la politica inizia dal locale, certo: ma la folk politics rimane nel locale».

Per affrontare i limiti della folk politics occorre riconoscere che, in fin dei conti, una parte significativa del problema risiede non tanto nella tipologia di pratiche e tattiche promosse, quanto nella sua visione strategica complessiva. Proteste, cortei, occupazioni, sit-in e scioperi sono tutti strumenti fondamentali, e nessuno di questi è in sé esclusivo appannaggio della folk politics. Il problema sorge quando questi strumenti vengono indirizzati da una visione strategica che considera cambiamenti piccoli e temporanei come l’orizzonte ultimo del proprio successo. Se per esempio le occupazioni restano semplicemente un modo per creare spazi temporanei ed esempi di relazioni sociali non-capitaliste, da queste non arriverà mai alcun cambiamento sostanziale. D’altra parte, se le occupazioni diventassero meccanismi per la produzione di network solidali, e per la mobilitazione di questi verso nuove forme di intervento, allora avrebbero un effettivo ruolo nel contesto di più ambiziose strategie contro-egemoniche.
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