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19-aprile-2022
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Il post-capitalismo sarà post-industriale

Il post-capitalismo sarà post-industriale


[Questo testo, il cui autore è Nick Srnicek, è estratto da un breve discorso presentato all'evento Socialismo e Deindustrializzazione organizzato da Spring. Per leggere l’articolo di Michael Roberts che riporta il discorso integrale, clicca qui. Di seguito riportiamo la nostra traduzione in italiano. Il testo in lingua originale è disponibile a questo link.]


Voglio sostenere oggi che solo la deindustrializzazione può portarci oltre il capitalismo, o in altre parole, che il post-capitalismo sarà necessariamente post-industriale. [1] Ciò significa che, anziché lamentarsi della perdita di posti di lavoro nell'industria manifatturiera, o lottare per riaverli, la deindustrializzazione dovrebbe invece essere applaudita come un risultato importante e irreversibile. Storicamente parlando, si tratta di un processo simile all'allontanamento dalle economie basate sull'agricoltura. Proprio come la meccanizzazione dell'agricoltura ha liberato le persone dalla dipendenza dal lavoro della terra, il processo di deindustrializzazione ha il potenziale per liberare le persone dalla fatica del lavoro più produttivo. Tuttavia, una conseguenza immediata dell'affermare che la deindustrializzazione è necessaria per il post-capitalismo è la necessità di reimmaginare la transizione tra questi sistemi economici.


La storia tradizionale del superamento del capitalismo è abbastanza semplice. A dire il vero, questa storia è stata complicata e criticata per tutto il XX secolo, ma il suo quadro generale è ancora alla base di una serie di ipotesi su come trascendere il capitalismo. A grandi linee, la storia inizia con un allontanamento dall'economia basata sull'agricoltura che era stata costruita attorno a un grande gruppo di contadini. Al suo posto emerge una rapida industrializzazione, esemplificata dalle industrie tessili, siderurgiche e infine automobilistiche nel XIX e XX secolo. Gli effetti sociali di questa industrializzazione sono stati particolarmente importanti per capire come sarebbe dovuto avvenire il post-capitalismo. L'industrializzazione ha comportato il passaggio da popolazioni rurali a popolazioni urbane il quale, unito alla trasformazione dei contadini in proletari, comportava l'accumulazione primitiva e l'espropriazione della terra comune. Il risultato fu un nuovo ceto operaio urbano che aveva solo la propria forza lavoro da vendere, ma che al tempo stessa poté svilupparsi in una forte classe sociale. Il funzionamento stesso delle fabbriche ebbe come effetto una crescente centralizzazione dei lavoratori sul posto di lavoro: lavoravano insieme, creando connessioni sociali e comunità. Il risultato di tutto ciò fu che la classe operaia arrivò a condividere gli stessi interessi materiali, come migliori condizioni di lavoro, salari più alti e settimane lavorative più brevi. In altre parole, con l'industrializzazione vi era la base materiale per una forte identità della classe operaia. (Vale la pena notare qui, che nonostante questa base materiale, la classe operaia industriale è sempre stata una minoranza della popolazione attiva. Anche al culmine della produzione nei paesi più industrializzati, l'occupazione nel settore manifatturiero coinvolgeva solo il 40% circa della popolazione. [2]) In base alla sua forza politica però la classe operaia doveva diventare l'avanguardia della popolazione, portandoci lontano dal capitalismo e verso qualcosa di meglio. Con il crescente potere della classe operaia e la socializzazione della produzione, si pensava che i lavoratori potessero semplicemente rilevare i mezzi di produzione e gestirli democraticamente e per il meglio.


Naturalmente, questo non è accaduto, e il miglior esempio che abbiamo di questa proposta è stata la miserabile esperienza sovietica. Ciò che accadde in quell'esperimento fu una glorificazione della produttività a spese della libertà. Proprio come nelle società capitalistiche, il lavoro era l'imperativo ultimo, e non fu una sorpresa vedere il taylorismo, il fordismo e altre tecniche di miglioramento della produttività imposte ai lavoratori dell'URSS. Nei paesi capitalistici, al contrario, i settori industriali sono diminuiti e le basi per una classe operaia forte sono state attaccate sistematicamente. Tuttavia, se guardiamo ai paesi in via di sviluppo, anche la storia tradizionale trova poca presa. Anche i paesi in via di sviluppo sono sempre più deindustrializzati. Ciò può essere osservato in due grandi fatti: in primo luogo, le economie di nuova industrializzazione non si stanno industrializzando nella stessa misura delle economie passate (misurate in termini di occupazione manifatturiera come percentuale della popolazione). Piuttosto che il 30-40% di occupazione, i numeri si avvicinano al 15-20%. In secondo luogo, anche queste economie stanno raggiungendo il punto di deindustrializzazione a un ritmo più rapido. Misurate in termini di livelli di reddito pro capite, queste economie raggiungono il loro picco di industrializzazione molto prima rispetto ai paesi precedenti. [3] Questo è il cosiddetto problema della “deindustrializzazione prematura”. La conclusione da trarre dall'esperienza del XX secolo è che la promessa della narrativa tradizionale – la classe operaia industriale che guida una rivoluzione verso il controllo democratico sui mezzi di produzione – non è stata mantenuta e sembra ormai essere obsoleta. Non viviamo più in un mondo industriale e le immagini classiche della transizione al socialismo devono essere aggiornate.
 


 

Quindi qual è l'alternativa? Possiamo ancora immaginare una transizione verso qualcosa al di là del capitalismo, o le stesse condizioni del socialismo sono evaporate nella storia? Che cosa significa la trascendenza del capitalismo se non semplicemente il controllo della classe operaia sui mezzi di produzione? Per capire cosa il post-capitalismo potrebbe comportare voglio prendere spunto da una citazione di Marx:


"Di fatto il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna: si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria."

 


Ciò che viene qui invocato da Marx è che il regno della libertà è al di là sia della produzione materiale che della centralità del lavoro nella società. La deindustrializzazione, nella misura in cui significa la sostituzione del lavoro umano con lavoro sempre più meccanizzato e automatizzato, è quindi un passo necessario verso qualcosa al di là del capitalismo. La deindustrializzazione è l'unico modo per sfuggire all'imposizione del lavoro, poiché ci consente di esternalizzare la produzione alle macchine. È importante sottolineare che la deindustrializzazione sembra anche essere l'unico modo per ottenere una società dell'abbondanza e del tempo libero. Senza di essa, si cade in due possibili alternative: o tempo libero allargato ma con povertà generalizzata (comunismo primitivo), o aumento dell'abbondanza al costo del lavoro autoritario (comunismo sovietico). Se vogliamo evitare questi risultati, l'automazione della produzione e del lavoro produttivo in generale è un passo necessario per costruire qualcosa al di là del capitalismo. La deindustrializzazione è, in altre parole, una tappa necessaria per superare il capitalismo. Voglio concludere affermando che cambiando la nostra comprensione su come superare il capitalismo, finiremo per dover rivedere anche alcune altre ipotesi.



In primo luogo, come ho detto all'inizio, dovremmo accettare l'idea che la produzione manifatturiera non c'è più, e questa è una buona cosa. Se osserviamo gli sforzi per ridurre la produzione, in genere vengono raggiunti riducendo i salari e generalmente attaccando le condizioni dei lavoratori. Più di recente, si è verificato il ritorno di alcune fabbriche tessili in America, ma solo a condizione che siano altamente automatizzate (fenomeno del “reshoring”). La seconda conclusione è che abbiamo bisogno di un cambiamento culturale che destituisca la priorità data al lavoro. I posti di lavoro e il lavoro stesso non possono essere centrali nella nostra società e nelle nostre identità. Possiamo vedere gli effetti di questa convinzione comune ovunque: per esempio, nella demonizzazione dei disoccupati e dei poveri, nell'obiettivo condiviso di voler dare posti di lavoro a tutti e nella glorificazione delle "famiglie che lavorano duro". Ovunque, il lavoro è il motivo dominante delle nostre società. In definitiva, l'obiettivo che occorre perseguire consiste nel "separare i salari dal lavoro". Le società umane stanno rapidamente raggiungendo il punto in cui semplicemente non ci sarà più abbastanza lavoro per tutti, anche ammettendo che questo potesse essere considerato un obiettivo moralmente virtuoso. Ovunque ci sono sintomi di un aumento del surplus di popolazione: i disoccupati, i sottoccupati, i precari e l'eccedenza assoluta indicizzata dagli slum globali e dall'incarcerazione di massa. La società dovrà prima o poi affrontare il problema della sovrappopolazione e della deindustrializzazione. E i parametri di base di questo dibattito sono: o gestire e controllare le eccedenze di popolazione (attraverso l'incarcerazione di massa, o la segregazione spaziale negli slum, o l'espulsione definitiva dalla società), o lavorare per stabilire una società post-lavoro sostenibile. Quest'ultimo obiettivo significherebbe ridurre la settimana lavorativa e mobilitarsi per implementare un reddito di base universale. Questi obiettivi, credo, sono l'unica strada da percorrere. Ciò comporterà il controllo sui mezzi di produzione, ma non nel modo in cui lo racconta la storia classica. Non si tratterà di controllo sui lavoratori al fine di una sempre maggiore crescita economica, ma piuttosto di controllo su un sistema di produzione e circolazione largamente automatizzato con finalità socializzate.


Naturalmente, tutto questo non accadrà facilmente, ed è qui che dobbiamo reinventare le fonti dell'azione politica in un mondo deindustrializzato. Una conseguenza finale della nuova narrativa della transizione, quindi, è che l'agire di classe è più complesso della semplice ricostruzione di un movimento operaio. La classe operaia industriale non può essere l'agente del cambiamento. O per fare un'affermazione ancora più forte: non solo la classe operaia industriale non può essere l'agente del cambiamento oggi, ma non avrebbe mai potuto essere il soggetto rivoluzionario, poiché la sua esistenza era basata su condizioni materiali che dovevano essere eliminate nel passaggio al post-capitalismo. La fase necessaria della deindustrializzazione significa che la classe industriale perde la sua unità nel processo, si frammenta e si disgrega, come abbiamo visto negli ultimi decenni. Al suo posto, però, sorgono nuove formazioni di classe. Tra questi spicca il precariato – quella classe che fa affidamento su lavori part-time, lavoro a contratto, lavoro autonomo, lavoro informale, lavoro interinale; che ha un reddito che a malapena sostiene il proprio sostentamento, figuriamoci quello delle proprie famiglie; o che è disoccupato o sottoccupato. Oggi questa categoria descrive un gruppo di persone sempre più ampio. Esse sono al limite delle dinamiche del capitalismo – un mondo che richiede alle persone di lavorare per sopravvivere, ma che è sempre più incapace di generare quel lavoro. Avendo sperimentato le tensioni del capitalismo, gruppi come il precariato possono costituire la base per una rinnovata politica di classe.


Quindi, in conclusione, la deindustrializzazione è necessaria per il post-capitalismo – è qualcosa da applaudire e non di cui lamentarsi con nostalgia. Il futuro deve essere orientato verso una società post-lavorista, ma per arrivarci bisogna riconoscere che la classe è cambiata, e che il potere politico va ripensato.



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[1] In tutto questo preferisco usare il termine generico "post-capitalismo" piuttosto che i termini più storicamente carichi e specifici "socialismo" e "comunismo". Ciò indica il fatto che la società futura a venire è sia diversa dagli esperimenti precedenti, sia aperta nelle sue determinazioni esatte.


[2] Dani Rodrik, "The Perils of Premature Deindustrialization", Project Syndicate, 11 ottobre 2013, https://www.project-syndicate.org/commentary/dani-rodrikdeveloping-economies–missing-manufacturing.


[3] Ibidem.

 
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