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19-gennaio-2024
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L'universo delle cose di Steven Shaviro

Pubblichiamo la traduzione inedita di un estratto dal terzo capitolo di The Universe of Thing, tratto dall'omonimo libro di Steven Shaviro, teorico accelerazionista appartenente alla branca filosofica del Realismo Speculativo, di cui fanno parte anche Iain Hamilton Grant e Ray Brassier (quest'ultimo maestro di Alex Williams e Nick Srnicek), già membri della CCRU. Steven Shaviro, così come il Realismo Speculativo in generale, si occupa di ontologia, ovvero dello studio della realtà. In quanto tale, il Realismo Speculativo (che in Italia è riconducibile al neo-realismo di Maurizio Ferraris e in Francia al pensiero di Quentin Meillassoux) costituisce una rottura rispetto al postmodernismo e al suo rifiuto categorico della realtà come dimensione indipendente (non-correlazionista) dal pensiero. Nello specifico, ad emergere è la visione di una "ontologia libidinale" in stretta connessione con la metafisica deleuziana, che riconosce nell'estetica la dimensione principale attraverso cui le cose "si sentono" le une con le altre, decretando in questo modo che i sensi vengono prima della rappresentazione concettuale. La scelta del titolo "The Universe of Things" proviene dall'omonimo racconto di Gwyneth Jones.

Il racconto di fantascienza L'Universo delle Cose, scritto dalla scrittrice britannica Gwyneth Jones (2011, 48-61), narra di un incontro tra un essere umano e un alieno. La storia fa parte del ciclo "Aleutiano" di Jones: una serie di romanzi e racconti ambientati in una Terra del futuro prossimo, visitata, colonizzata e alla fine abbandonata da una razza umanoide aliena. Gli Aleutiani (così chiamati questi alieni) possiedono tecnologie superiori alle nostre. Inoltre, sono di genere indeterminato; gli esseri umani tendono a sentirsi a disagio per questo. Se proprio si vuole, gli Aleutiani sembrano vagamente più "femminili" che "maschili", ma gli esseri umani di solito si riferiscono a loro con il pronome "esso". Per entrambe queste ragioni, la presenza degli Aleutiani sul nostro pianeta è traumatica e umiliante. Non è che facciano qualcosa di particolarmente cattivo o spiacevole, ma la loro stessa esistenza in qualche modo ci sminuisce. Ci ritroviamo in una posizione di dipendenza abietta; persino i più agiati uomini bianchi occidentali devono ora considerarsi tra le fila dei colonizzati.


La presenza degli Aleutiani sulla Terra mina il nostro inveterato antropocentrismo. "L’umano" non è più il metro di tutte le cose. Non possiamo più pensare a noi stesse come qualcosa di speciale, figuriamoci prenderci come apice della creazione. La modernità è spesso vista come una lunga serie di spostamenti e decentramenti dell'umano; pensate a Copernico, Darwin e Freud, o, per quel che riguarda la questione, Deep Blue che sconfigge Garry Kasparov. Tutto ciò culmina nella superiore disinvoltura degli Aleutiani di Jones, che ci lascia in uno stato di smarrimento. E ciò non riguarda solo il primo contatto, così spesso mitologizzato nelle narrazioni di fantascienza. Gli alieni di Jones rimangono sulla Terra per secoli. Il fatto della loro esistenza non perde mai il suo taglio disturbante, anche se viene gradualmente intrecciato nelle abitudini e nelle supposizioni della vita quotidiana umana. In questo modo, il ciclo aleutiano è una narrazione che tratta, tra le altre cose, degli adattamenti che ci vengono imposti nel momento in cui entriamo in un'era postumana.

Nel contesto del ciclo aleutiano di Jones, L'Universo delle Cose si concentra su una delle differenze più sorprendenti tra gli alieni e noi: il fatto che la loro tecnologia, a differenza della nostra, sia intrinsecamente viva. Gli strumenti degli Aleutiani sono protrusioni biologiche di se stessi: "Avevano strumenti che strisciavano, scivolavano, volavano, ma avevano creato queste cose... Costruivano cose con batteri... Batteri che erano essi stessi riconducibili alla flora intestinale degli alieni, infettando tutto" (Jones 2011, 52). Di fatto, gli Aleutiani concretizzano la tesi di Marshall McLuhan secondo cui tutti i media sono estensioni protesiche di noi stessi. Gli Aleutiani esternalizzano se stessi in ogni aspetto del loro ambiente. Le loro reti si estendono ben oltre i loro corpi e dintorni immediati. Sono persino in grado di condividere sentimenti e ricordi, poiché sono codificati chimicamente nel muco che emettono e scambiano tra loro. Di conseguenza "gli alieni non potevano sperimentare il concetto di 'essere parte'. Non c'erano parti nel loro continuum: nessuno spazio, nessun margine divisore" (57). Sono vivi in mezzo a un mondo interamente "vivente".

Il mondo vivente degli Aleutiani è in netto e amaro contrasto con il modo in cui rimaniamo intrappolate nella nostra triste eredità cartesiana. Abbiamo la tendenza a temere le nostre stesse tecnologie meccanicistiche anche mentre le usiamo sempre di più. Non possiamo sfuggire al diffuso senso, endemico alla cultura occidentale, di essere sole nella nostra vitalità: intrappolate in un mondo di materia morta o passiva. Le nostre macchine, scrive Jones, "promettevano, ma non potevano eseguire. Restavano cose, e le persone restavano sole" (2011, 56). A molte persone delle storie di Jones sembra che, in contrasto con questa situazione, "gli alieni avessero la soluzione all'isolamento umano: un mondo parlante, un mondo con occhi; la compagnia che Dio sogna" (56-57).

Il racconto L'Universo delle Cose narra la storia di un meccanico umano che un alieno assume per riparare la sua auto. Il meccanico, come la maggior parte degli esseri umani, guarda gli alieni con ammirazione e allo stesso tempo prova un po' di paura nei loro confronti. Si sente onorato e umiliato, ma anche estremamente ansioso, quando l'alieno affida la riparazione del suo veicolo a lui. Non sa perché è stato scelto per questo lavoro, né sa perché l'alieno usi una tecnologia terrestre inferiore (e dannosa per l'ambiente) invece di aderire al proprio modo di trasporto basato sugli Aleutiani. In ogni caso, il meccanico concentra tutti i suoi sentimenti confusi sull'auto. Desiderando mantenere 'il mistero dell'artigianato' (Jones 2011, 48), l'unica sorta di orgoglio umano che gli rimane, spegne tutte le macchine che di solito svolgono il lavoro di riparazione nella sua officina e decide di riparare l'auto dell'alieno a mano.

Nel corso di una lunga serata, mentre lavora sull'auto, il meccanico ha un'epifania - o un'allucinazione. Esperisce, per un momento, com'è effettivamente il 'mondo vivente' degli alieni: i suoi stessi attrezzi sembrano prendere vita. L'esperienza è sconcertante, per non dire di più: “Stava fissando la chiave inglese nella sua mano mentre la barra di metallo perdeva il suo splendore. La pelle si estendeva su di essa, il dado regolabile diventava una coppa di muscoli, ristretta come un ano, labbra umide retratte da una torsione sulla barra ingrossata” (Jones 2011, 58). Il mondo vivente è osceno e pornografico. L'esistenza è soffocante e insopportabile. Tutto è permeato da “melma vivente... piena di sé stessa, di sostanza umana, ma in qualche modo resa altra” (58). Questo è ciò che accade quando “sei riuscito a entrare nella mente dell'alieno, nel vedere il mondo attraverso gli occhi alieni. Come potevi aspettarti che un'esperienza del genere fosse piacevole?” (58). Il meccanico è terrorizzato e nauseato. Tutto ciò che desidera è tornare alla solitudine e alla sicurezza del mondo umano consueto: un mondo in cui gli oggetti rimangono a una giusta distanza da noi, perché sono “morti e sicuri” (58).

L'Universo delle Cose ci invita a riflettere sulla vitalità degli oggetti e su come siano correlati a noi. Il racconto suggerisce che anche quando abbiamo trasformato le cose in strumenti e le abbiamo quindi costrette a servire i nostri scopi, esse hanno ancora una vita propria. In altre parole, gli strumenti (come le cose in generale) sono ciò che Bruno Latour chiama attori (actants) - proprio come noi stesse (1988, 159). Le cose hanno i propri poteri, le proprie tendenze innate. Quando facciamo uso delle cose, impiegandole come strumenti, ci alleiamo veramente con loro (Harman 2009b, 19). Ma l'alleanza significa anche dipendenza; scopriamo che non possiamo fare nulla senza l'aiuto dei nostri strumenti. Il racconto propone quindi qualcosa di simile a ciò che Jane Bennett chiama materialismo vitale: il riconoscimento che "la vitalità è condivisa da tutte le cose e non è limitata a noi soli” (2010, 89).

Tuttavia, anche se il racconto suggerisce ciò, esso mette in scena anche la nostra paura nei confronti della vitalità delle cose. Nell'esperienza del meccanico, la meraviglia si trasforma in terrore. La sensazione che tutto sia colmo di "sostanza umana" si trasforma in una visione paranoica di una vitalità aliena minacciosa. La magia di un mondo completamente animato diventa un incubo alla Cthulhu. Siamo minacciate dalla vitalità della materia. Abbiamo bisogno di sfuggire alla troppa vicinanza delle cose. Non possiamo sopportare l'idea che gli oggetti abbiano una vita autonoma, anche se questa vita è in ultima analisi attribuibile a noi. Siamo disperate nel rassicurarci che, nonostante tutto, gli oggetti sono, dopo tutto, passivi e inerti.

È importante notare che il racconto di Jones non riguarda "cose" in generale; piuttosto, si concentra specificamente sugli strumenti (tools), poiché gli strumenti sono probabilmente gli oggetti nei confronti dei quali affrontiamo più pienamente le contraddizioni degli attori non umani, della materia vitale e dell'indipendenza degli oggetti. Gli strumenti sono estensioni di noi stesse, cose che abbiamo plasmato esplicitamente per servire le nostre esigenze. Dovrebbero essere subordinati alla nostra volontà. E in effetti, nella maggior parte dei casi, non pensiamo nemmeno ai nostri strumenti; sono semplicemente . Come afferma Heidegger, almeno nell'interpretazione più comune del suo lavoro, gli strumenti sono pronti all'uso, disponibili per noi. Eppure questa stessa disponibilità dei nostri strumenti conferisce loro una strana autonomia e vitalità. Scopriamo che non possiamo semplicemente usarli. Dobbiamo imparare a lavorare con loro, piuttosto che contro di loro. Dobbiamo tener conto della loro natura e delle loro esigenze, così come delle nostre.

La mia menzione del concetto di prontezza all'uso (readiness-to-hand) (Zuhandenheit) di Heidegger non è casuale; ritengo che L'Universo delle Cose possa essere letto come un'allegoria di ciò che Graham Harman, espandendo il concetto di Heidegger, chiama essere-strumento (tool-being) (Harman 2002). Harman critica esplicitamente la comune interpretazione della prontezza all'uso in termini pragmatici, che è il modo in cui ho utilizzato il concetto un momento fa. Secondo Harman, la prontezza all'uso non significa la gestione pratica delle cose, in opposizione alla loro teorizzazione esplicita (2002, 125-26). Piuttosto, la categoria del pronto all'uso ha un campo d'azione molto più ampio. Non consiste "esclusivamente in dispositivi umani... Possiamo parlare del pronto all'uso persino di falene morte e di tremori su un sole lontano. Per quanto 'inutili' possano essere queste cose, esercitano comunque la loro realtà all'interno del sistema totale delle entità" (152). Le cose sono attive e interattive ben oltre ogni misura della loro presenza per noi. L'essere-strumento non si applica solo all'uso umano delle cose; è una categoria ontologica molto più fondamentale. Il racconto di Jones inizia con la sensazione familiare degli strumenti come oggetti di utilizzo, ma culmina nella scoperta del meccanico che l'"universo delle cose" ha una realtà più profonda.

Il punto cruciale dell'essere-strumento, nell'analisi di Harman, è che esso comporta un radicale ritiro dalla semplice presenza e quindi da qualsiasi possibilità di teorizzazione. In tutto il lavoro di Heidegger, Harman dice: "l'unico errore da evitare è l'abitudine radicata di considerare gli enti come presenti alla mano, come rappresentabili in termini di proprietà delineabili piuttosto che riconosciuti nell'actus di essere ciò che sono" (2002, 27). Opponendo questa riduzione, Heidegger insiste sempre sul fatto che "ciò che esiste al di fuori dei contesti umani non ha la modalità dell'essere presente alla mano" (126). Ridurre una cosa alla sua presenza alla mano, cioè alla somma delle sue proprietà delineabili, significa esattamente considerare quella cosa solo come il correlato di una coscienza che la percepisce (Meillassoux 2008). Ma una cosa è sempre più delle sue qualità; essa esiste e agisce indipendentemente e al di sopra dei modi particolari con cui la afferriamo e comprendiamo. Ecco perché Harman attribuisce a Heidegger il merito di fornirci una via d'uscita dal correlazionismo e verso una ontologia orientata agli oggetti.

Harman sostiene che tutte le entità sono esseri-strumento; nessuna di esse può essere semplicemente ridotta a presenza-alla-mano o a un semplice elenco di proprietà. Tuttavia, l'essere-strumento stesso è duplice: ha "due sensi distinti. È l'esecuzione di una forza sotterranea che si affievolisce, ma è anche una forza che agisce per evocare una realtà esplicitamente incontrata" (Harman 2002, 26). Da un lato, afferma Harman, "gli esseri-strumento... si ritirano nel lavoro di uno sfondo inosservato... Dissolte in un effetto strumentale generale, le entità svaniscono in un sistema di riferimento unico, perdendo la loro singolarità" (44-45). Questo è ciò che ci consente di dare per scontati i nostri strumenti; nella maggior parte dei casi, nemmeno li notiamo come oggetti. Ci affidiamo al loro effetto strumentale, dimenticando che questa efficacia è il risultato di una vasta rete di alleanze, mediazioni e relazioni. Tale è l'assunzione iniziale e compiaciuta del meccanico in L'Universo delle Cose.

Ma allo stesso tempo, da un altro lato, l'essere-strumento comporta anche un movimento contrario: una inversione. Questo è incarnato da Heidegger nella forma dello "strumento rotto". Quando uno strumento, o una cosa, non funziona come previsto, l'eccesso del suo essere ci è improvvisamente rivelato. Come lo descrive splendidamente Harman, radicalizzando Heidegger, c'è "un insorgere di elementi distinti... un'ondata di minerali e bandiere di battaglia e gatti tropicali nel campo della vita, dove ogni oggetto porta con sé un certo comportamento e ci seduce in un modo specifico, bombardandoci con le sue energie come una stella neutronica in miniatura" (2002, 47). Quando ciò accade, lo strumento è più-che-presente; esso si pone in modo troppo attivo e aggressivo perché io lo possa considerare come presente-alla-mano. Cioè, lo strumento, o la cosa, diventa vivo, come il meccanico sperimenta improvvisamente nel racconto. E questa rivolta, o svelamento, è la base stessa dell'ontologia orientata agli oggetti, che Harman descrive come un tentativo "di rendere giustizia alla forza distintiva di questi oggetti specifici, all'eruzione di personalità dall'impero dell'essere" (47).
 

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