1
5
.
1
1
.
2
0
2
1
SectionArticoli
Art0025
15-novembre-2021
Davide
“Jack94”
Gelmetti
fb
T 7'
fb

Per una Scuola efficace: un anti-manifesto inefficiente

Scrivo queste righe alle undici e mezza di sera, mentre avrei ancora da preparare una
lezione su Platone. È per me oltremodo curioso che io mi accinga a scrivere questo solo
ora, con altro da fare, come “in fuga” (direbbe Deleuze) da una vita di doveri, spesso
ripetitiva e talvolta opprimente. Ma si diceva di Platone…come Don Abbondio nel
celebre testo manzoniano mi chiedo pensoso “Chi era costui?”; una domanda ironica,
certamente, ma che mi porta nel vivo di una questione ben più bruciante: Chi sarà per i
miei studenti? Chi posso farlo essere?
 
Ovviamente nella scuola di oggi, e in quella che si prospetta per un domani
prossimo, forse c’è spazio per Platone, ma non per porsi questo tipo di domande.
Perché? Perché un insegnante si occupa di didattica quasi per accidens, per fare
esibizione di latinorum, “per sbaglio”, diremmo noi. La responsabilità giuridica caricata
sull’istituzione e prontamente girata ai suoi elementi concreti, al suo personale, ha
prodotto una gemmazione infinita di orpelli burocratici. Carte su carte su carte, registri,
aggiornamenti, misurazioni, etichette. Tutto all’insegna di una trasparente e lucida
parvenza di oggettività. In questa transizione temo che qualcosa però ci stia sfuggendo,
qualcosa di fondamentale: non è casuale che si nominino tanto, nelle estenuanti
riunioni, il Ministero, gli ispettorati, i presidi, i colleghi, i genitori, gli specialisti di ogni
genere e natura, gli esperti di protocolli, e quasi mai invece gli studenti. Volevamo
misurare l’insegnamento, poi gli insegnanti, per trovare il metro magico che ci
illuminasse su che teste tagliare. Ma come in una fiaba russa, si scopre che tutto ciò che
ci si era proposti in principio non era altro che illusoria allucinazione, effetto
d’incantesimo, destinata a finire nella delusione di scoprire il segreto di Pulcinella,
ormai inconfessabile: che insegnare non è un mestiere quantitativo, e riguardando una
peculiare tipologia di rapporti umani, ovvero avendo per elementi non tanto oggetti
quanto persone e relazioni, cioè vita, rifugge continuamente per sua natura qualunque
schematizzazione numerica e razionale.

Il punto è che non siamo più capaci di accettare che qualcosa di fondamentale come
l’istruzione possa non essere uno spazio sotto controllo, cioè uno spazio dove qualcuno
“potrebbe fare il furbo”. Questo però ci acceca, e ci ritroviamo a discutere di riforme su
riforme, a parlare di lavagne elettroniche, banchi a rotelle, nuovi titoli di accesso e
selezioni più dure per gli insegnanti. E non capiamo che tutta questa giostra va a ledere
e deteriorare l’unica cosa che davvero andrebbe preservata ad ogni costo: la
compassione. Il latino ci torna stavolta realmente utile: compassione deriva da cum-
patire, cioè “sentire insieme”. Un insegnante senza la capacità di prendersi a cuore i
propri studenti, di sentire insieme ad essi il palpitare della loro curiosità, della loro
gioia, dei loro dubbi, delle loro paure, è solo uno zombie, una cadavere putrescente,
escrescenza orrenda della mente-alveare neoliberale che permea anche l’istituzione
scolastica. E non saranno ventiquattro crediti in discipline psico-pedagogiche o le
lavagne elettroniche a trattenere l’orda di questi.
 
Si parla tanto di “cultura”, specialmente in politica, perché è un termine a cui il
nostro cervello rettile ormai associa qualcosa di vagamente positivo e rassicurante, un
po’ come “tradizione”. Dobbiamo cominciare a confrontarci con due problemi: il primo
è che esistono anche tradizioni orribili, e così elementi culturali. Il secondo è che, anche
se la cultura della scuola tradizionale fosse positiva, è comunque morta: i giovani non
hanno più lo stesso rapporto con i libri, con la lettura, con il linguaggio, ma nemmeno
con la disciplina o con il proprio desiderio. Sono a un tempo, così mi pare, più ignoranti
e più consapevoli, anche se inconsapevolmente. Non si conoscono, e il più delle volte
hanno imparato a non fidarsi di se stessi, a non potersi concedere di avere limiti, hanno
imparato che valgono poco, a tratti nulla, e che però potrebbero valere qualcosa, se solo
si spingessero un poco di più, se solo fossero meno pigri. Eppure qualcosa di potente e
ricco di dignità scorre in loro, l’ombra di un flusso di desiderio. Si manifesta schivo, in
una sorta di generale apatia, ma che sembra sempre la quiete nei prodromi di una
tempesta.

 
Concludendo, credo che dovremmo smettere di chiederci come rendere la scuola
efficiente. L’efficienza deve interessare ai fatturatori seriali, ai maggiordomi dei mercati
e dei capitali, non certo a chi guida un’istituzione culturale. A noi serve una scuola
nonefficiente, ma efficace. Efficace soprattutto nel formare uomini e donne consapevoli
di se stessi, indipendenti e capaci di difendersi dalle pressioni aggressive di questo mondo.

L’efficienza è un mantra totemico, la promessa quasi mai mantenuta che less is more,
dove less riguarda sempre il denaro, e more la performance attesa. Siamo grandi e (lo
aggiungo con cautela, visti i tempi, solo per amor di completezza del proverbio)
vaccinati, dovremmo smettere di credere alle favole.

L’unica efficacia possibile è un’anti-efficienza, radicata nella com-passione di
insegnanti e studenti, liberati dagli oberanti carichi di un’eteronomia burocratica, e
chiamati il più possibile all’auto-gestione.

Nel tentativo di pensare una nuova scuola, come novelli avventurieri da Mago di Oz,
non ci siamo ritrovati Spaventapasseri senza cervello, ma Boscaioli di Latta senza
cuore. Resta da capire come stiamo messi a coraggio.



 
c
o
r
r
e
l
a
t
i
newsletter
Chiudi la newsletter
Grazie per esserti iscritto, controlla la tua mail per confermare l'iscrizione alla newsletter