Sempre e solo dei poveri comunisti (di lusso)
C’è un gesto, nella storia, che annuncia la fine di un’epoca. È il gesto sprezzante del potere che, dopo aver trasformato la vita dei molti in un inferno di precarietà e disperazione, si permette il lusso supremo dell’umiliazione pubblica. Lo ha fatto la
ministra dell’istruzione Bernini, sul palco di
Atreju, rivolgendosi allɜ giovani studentɜ di medicina che contestavano una riforma scellerata:
«Siete sempre e solo dei poveri comunisti». Una citazione berlusconiana, un’eredità velenosa. È il moderno
«Che mangino brioche» scagliato da una casta che non riesce neppure a vedere l’abisso che sta scavando sotto i propri piedi. Mentre
la prima causa di morte in Europa per i giovani tra i 19 e i 27 anni è il suicidio, mentre una generazione è condannata a lavorare incessantemente nell’era della più scandalosa
abbondanza tecnologica, la loro risposta è la
leva militare obbligatoria: l’ultimo, patetico tentativo di forgiare corpi obbedienti per un
progetto politico mostruoso.
Fanno tutto quello che vogliono, sulle nostre spalle e sui nostri corpi, al di là della nostra sofferenza. Credono che il loro dominio sia totale, che il
realismo capitalista – con il suo ricatto del prezzo, della carriera, del debito – abbia
atrofizzato in noi ogni muscolo dell’immaginazione e della ribellione. Si sbagliano.
E si sbagliano in modo pericoloso.
Perché quella frase, «poveri comunisti», contiene un
cortocircuito involontariamente profetico. Il potere intendeva deridere, squalificare, relegarci in uno stereotipo miserabile. E invece, ha pronunciato le parole esatte per
nominare il desiderio pulsante che si muove, sotterraneo, in questo presente che loro credono di possedere. Sì, siamo povere.
Povere di tempo, di certezze, di futuro in un mondo che produce ricchezze inimmaginabili. E sì, siamo comuniste. Non per nostalgia di statue o bandiere, ma perché
l’orizzonte della comune abbondanza, della vita liberata dal ricatto, è l’unica risposta razionale a questa povertà imposta.
E qui il cortocircuito si fa minaccia, e promessa. Perché noi, questi “poveri comunisti”, stiamo imparando a
immaginare la nostra rivincita come un atto di lusso radicale.
Non il lusso degli yacht e dei Rolex, quel feticcio vuoto che loro custodiscono. Quello è il
loro lusso, meschino e esclusivo. Il nostro è, all'opposto, il
lusso comunista. È l’operazione semantica che
Mark Fisher e Judy Thorne invocavano: l’accostamento paradossale che non somma i termini, ma li fa esplodere.
Dissolve il “lusso” capitalista, che è merce per pochi,
e il “comunismo” stereotipato, che è ascetismo grigio. Ciò che emerge da questo cortocircuito semantico è un’unica, fiammeggiante rivendicazione:
l’abbondanza comune come diritto inalienabile, e la gratuità come nucleo incandescente di un immaginario alternativo.
Il loro potere si fonda sul
ricatto del prezzo, sul calcolo che trasforma la salute, la casa, il cibo, il sapere, la mobilità in merci, in fonte di ansia e sudditanza. La nostra risposta è la rivendicazione assoluta,
lussuosissima, della
gratuità. Immaginate il
lusso comunista di vivere in un mondo dove i
sei grandi bisogni comuni – salute, casa, cibo, energia, mobilità, cultura – sono sottratti al mercato e
garantiti gratuitamente. Immaginate il lusso di un
reddito universale che riconosca il dividendo sociale dell’abbondanza che le nostre mani e le nostre macchine già producono. Questo non è un sogno utopico. È il
programma concreto di una sinistra che, invece di elemosinare consenso, impara a far desiderare un
mondo senza prezzo. È
l’egemonia libidinale che trasforma il “gratis” da scintilla a ossessione collettiva, rendendo inconcepibile la monetizzazione della vita.
La Bernini, dal suo palco, e con lei tutta la congrega di governanti che umiliano e depredano,
devono stare molto attenti. Quando si schernisce la sofferenza con tale noncuranza, si scava la fossa. Ogni «povero comunista» che loro vedono è un potenziale portatore di questo
lusso rivoluzionario. La rabbia che sta crescendo non è solo per quello che ci tolgono. È per quello che ci negano: la possibilità di una vita
opulenta di tempo, di relazioni, di bellezza, di sapere condiviso. È il desiderio di un lusso che non si compra, ma si costruisce in comune,
abolendo le loro gerarchie.
Il loro è un
azzardo rischioso. Perché credono di avere a che fare con sudditi rassegnati. Invece, hanno di fronte dei “poveri comunisti” il cui desiderio più intimo, sempre più consapevole, è un lusso così radicale da richiedere la
distruzione del loro mondo. Per loro, il comunismo è solo un feticcio da agitare per deridere, uno spauracchio del secolo scorso. Non hanno capito che proprio quell’insulto risveglia lo
spettro che credono di aver sepolto. E questo spettro, ora, non indossa più l’uniforme grigia della scarsità, ma veste
l’abbondanza opulenta di un desiderio collettivo troppo a lungo represso. Devono stare attenti:
quando si schernisce il fantasma, lo si invita a tornare. E torna sempre più feroce, più ruggente e più concreto di quanto la loro miopia possa immaginare. Quell’insulto è la prova che il tempo del loro dominio sta scadendo. E il nostro, il tempo del
lusso comune, sta per iniziare.