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19-settembre-2020
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Dal '68 al manifesto accel: breve storia della folk politics

Per folk politics si intende il senso comune della sinistra contemporanea, una tendenza implicita che ne predetermina i presupposti strategici e che ha come effetto una sua persistente inefficacia nella lotta politica verso il superamento del capitalismo. Il concetto, formulato e descritto da A. Williams e N. Srinicek all’interno dell’opera Inventare il futuro: per un mondo senza lavoro, costituisce la principale critica del pensiero accelerazionista alla sinistra contemporanea. Secondo gli autori, questo atteggiamento politico nasce nel corso degli anni ’60 come risposta immediata al fallimento dei partiti. Costruendosi su un piano radicalmente antagonista a ogni forma di organizzazione, burocratizzazione o istituzionalizzazione, la folk politics rinuncia a qualsiasi progettualità egemonica fino a essere totalmente sterilizzata dall’avvento del neoliberismo, il quale dalla fine degli anni ’70 diventa l’ideologia dominante alla guida delle trasformazioni economico-sociali del genere umano.


Dal maggio ’68 al declino della forma-partito

Il contesto storico all’interno del quale comincia a prendere forma la folk politics si colloca molto probabilmente nel più significativo momento di destabilizzazione dell’assestamento postbellico, cioè tra la fine degli anni ’60 e l’inizio del decennio successivo. Le rivolte che scoppiarono in tutto il mondo nel 1968 diedero vita a un’ondata di movimenti sociali spinti dall’emergere di nuovi desideri di massa (come ad esempio una maggiore flessibilità sul lavoro) e da nuove e insistenti richieste come l’uguaglianza razziale e di genere, il disarmo nucleare, la libertà sessuale e la fine dell’imperialismo occidentale. Le ragioni all’origine di questa “nuova sinistra” sono riconducibili a due cause fondamentali.

La prima consiste nella perdita di credibilità verso i partiti comunisti, accusati di aver prodotto sul lungo termine tecnocrazie sclerotizzate e repressione. Il risultato di questa delusione si tradusse nella messa in discussione della validità strategica del programma leninista, che prevedeva la conquista dello Stato da parte di un partito rivoluzionario basato sulla classe proletaria. Come conseguenza le gerarchie e il ruolo di avanguardia dei partiti comunisti iniziarono a essere considerate forze contrarie agli obiettivi dei nuovi movimenti sociali. In questo modo, perdendo l’occasione di sostenere i movimenti studenteschi e sindacali, nel corso del ’68 i partiti comunisti finirono per condannare al declino qualsiasi ipotesi rivoluzionaria.

La seconda causa all’origine di questa nuova sinistra è riconducibile alla crisi della socialdemocrazia, che con le sue soluzioni di stampo keynesiano-corporativo al problema della disuguaglianza sociale, appariva sempre più accontentarsi dell’ordine vigente, e quindi incapace di procedere in direzione di un socialismo realmente emancipatore. La sua classe dirigente veniva accusata di essere autoritaria e paternalista, di aver perso la sua anima radicale e di essere generalmente chiusa sia nei confronti di donne che di minoranze etniche. Inoltre, la sua dipendenza da un modello di organizzazione capitalista (il fordismo) venne messa in crisi dal sorgere di sempre più nuove forme di lavoro cognitivo e da sempre più complesse congiunture internazionali.

Dallo scredito dei partiti comunisti e dalla dissoluzione del blocco socialdemocratico, la coesione sociale ne risultò profondamente fratturata. La nuova sinistra, sorta prevalentemente tra gli studenti e nelle università, si compose come una forza ampiamente plurale ma comunque sempre esplicitamente anti-autoritaria, anti-burocratica e spesso allergica a qualsiasi forma di organizzazione: molte delle tattiche proposte da questi gruppi enfatizzavano infatti i vantaggi dell’azione diretta, traendo ispirazione dai movimenti per i diritti civili degli afroamericani, da precedenti movimenti studenteschi, dalle idee del situazionismo europeo, da correnti politiche anarchiche e dal neonato movimento ambientalista. È qui che è possibile individuare l’emergere di quell’orientamento strategico alla base della folk politics, come anche delle modalità di azione che la caratterizzano.

Come risultato di questi avvenimenti, al declino della forma-partito questi movimenti hanno accompagnato politiche che potrebbero essere identificate “anti-sistema”, intese cioè a sfidare e smantellare il potere burocratico-gerarchico in favore di nuovi tipi di azione diretta: dai movimenti studenteschi a quelli femministi, dai movimenti sindacali europei alle proteste anti-staliniste di Praga, queste politiche anti-sistema hanno portato a considerare qualsiasi forma di potere politico come intrinsecamente inquinato da tendenze oppressive, patriarcali e di dominio. E questo ha condotto a un paradosso: se da una parte infatti si crearono le possibilità per alcune forme di negoziazione con le strutture di potere esistenti, le quali finirono gradualmente per essere influenzate ma al contempo anche erose da questa nuova sinistra, dall’altra, questa anti-politica finì nel lungo periodo per rimanere marginale rispetto alle trasformazioni socio-economiche che da lì in poi si sarebbero verificate, e dunque si rivelò incapace di trasformare quelle parti della società che non fossero già convinte del suo progetto.

Il risultato di questi processi è stato che le politiche anti-sistema hanno prodotto pochi strumenti per la costruzione di un nuovo movimento davvero capace di opporsi all’egemonia capitalista. Le idee, i valori e i nuovi desideri ereditati da questo periodo di progresso hanno sì avuto un significativo impatto a livello globale, permettendo la diffusione di istanze come quelle femministe, antirazziste, i diritti degli omosessuali e la lotta contro la burocrazia e il colonialismo. Hanno altresì permesso un dibattito interno alla sinistra che fu di cruciale importanza, ed è in questo che va individuato il principale patrimonio della folk politics. Ciononostante, l’incapacità di trasformare gli aspetti più radicali di questi movimenti in progetti realmente egemonici ha avuto conseguenze importanti nel periodo di destabilizzazione che ne è seguito. Questi movimenti non sono infatti riusciti a rimpiazzare il fallimentare ordine socialdemocratico con una valida alternativa, spianando così la strada alla nascente egemonia neoliberale.


Gli anni ’70 e l’ascesi dell’egemonia neoliberale


Contemporaneamente alla crisi della vecchia sinistra e al sorgere di nuovi movimenti di lotta, anche i paradigmi economici furono attraversati da profonde mutazioni. Gli anni ’70 furono gli anni della crisi energetica, della fine degli accordi di Bretton Woods, dell’incremento su scala globale dei flussi di capitale, di una persistente stagflazione e di rendimenti decrescenti. Tutto ciò mise effettivamente in crisi l’assestamento politico su cui si era costruito il periodo del dopoguerra, vale a dire quel peculiare insieme di politiche economiche keynesiane, produzione industriale fordista-corporativista, e consensus socialdemocratico in grado di garantire ai lavoratori il ritorno di parte del surplus sociale. In tutto il mondo questa crisi strutturale si trasformò in un’opportunità per trasformare radicalmente il modello socio-economico di riferimento. Questa opportunità venne sfruttata dalla destra, la quale si strinse attorno ad un nuovo pensiero economico chiamato neoliberismo e generò una nuova egemonia capace di affrontare e risolvere tale crisi.

Il neoliberismo fu dunque il pensiero economico che permise alla destra di scardinare i paradigmi fondamentali del modello socialdemocratico, ristabilendo così gli imperativi del profitto e dell’accumulazione dei capitali. Nato da origini disparate all’inizio del XX secolo, questo nuovo pensiero aveva attraversato un’accelerazione del proprio sviluppo a partire dal 1947, quando l’economista Friedrich Hayek fondò la Mont Pelerin Society, un’organizzazione internazionale che si prefigurava di sviluppare e diffondere una nuova visione utopica di liberismo fondata sul libero mercato e sulla libertà individuale. Diversamente da quella nuova sinistra che stava sorgendo dai moti del ’68, il progetto neoliberale si era fin da subito configurato all’interno di una strategia di lungo periodo, finalizzata alla conquista del senso comune e alla costruzione di un’egemonia globale. Ripudiando qualsiasi azione che si esaurisse nell’immediatezza del proprio operato, il neoliberismo appariva come il frutto di più di 30 anni di programmazione ideologica e puntava, quale suo unico obiettivo, alla conquista del potere. Alla fine, grazie soprattutto all’economista Milton Friedmann e ai suoi allievi dell’università di Chicago (i c.d. "Chicago Boys"), come anche al sorgere di una molteplicità di istituti accademici che si preoccupavano di diffondere think thank a sostegno di questo nuovo pensiero, il neoliberismo si presentò negli anni ’70 con la forza necessaria per spodestare il modello socialdemocratico dal proprio ruolo di egemone.

Da un punto di vista di strategia politico-economica, la nuova destra neoliberale puntò a collegare la crisi del capitalismo al potere dei sindacati: in questo senso, la conseguente sconfitta del sindacalismo organizzato in tutte le principali nazioni capitaliste rappresenta probabilmente il più grande successo di un neoliberismo dimostratosi capace di spostare la bilancia del potere tra lavoro e Capitale. Nel frattempo, anche se negli anni ’70 i partiti socialisti e comunisti erano riusciti a conquistare sempre più voti in Europa occidentale, i loro tentativi di rispondere da sinistra alla crisi si limitavano puramente alla rivendicazioni della classica pianificazione corporativista, che tuttavia si trovava sempre più sotto attacco da una nuova destra che si auto-proclamava alla guida di un programma diretto verso un futuro di libertà e di modernità. Alla fine, sotto le nuove condizioni economiche le vecchie politiche keynesiane si rivelarono incapaci di promuovere la crescita, di contenere la disoccupazione o di ridurre l’inflazione. Il risultato fu che i partiti di sinistra finirono spesso per attuare politiche proto-neoliberali nel disperato tentativo di dare fiato alla ripresa economica. Il tutto terminò nel 1979 nel Regno Unito, quando a divenire primo ministro fu la conservatrice Margaret Thatcher. Con il suo celebre motto “There is no alternative”, il neoliberismo riusciva finalmente ad affermarsi quale unico modello in cui riporre fiducia, dimostrando così di aver conquistato con successo l’egemonia a livello globale. L’anno successivo, con l’elezione di Ronald Reagan a presidente degli Stati Uniti, il neoliberismo si preparava a diffondersi con velocità in ogni angolo del pianeta.


Gli anni ’90 nell’era della post-politica


Quando il neoliberismo riuscì infine a imporsi sul senso comune, le formazioni socialdemocratiche superstiti finirono lentamente per accettarne le condizioni. Con i maggiori partiti politici essenzialmente in accordo con il programma politico ed economico neoliberale, e con un sempre maggior numero di servizi pubblici privatizzati, le possibilità di ottenere dei cambiamenti significativi per via elettorale furono drasticamente ridotte. Un profondo cinismo prese così a insinuarsi nell’azione di partiti ormai privi di significato e sempre più simili a imprese di relazioni pubbliche, con i politici ridotti al ruolo di mercanti che cercano di vendere prodotti poco attraenti. Progressivamente, il declino della partecipazione elettorale e la graduale rassegnazione alle coordinate liberali indussero nella popolazione una generalizzata disillusione nei confronti della politica. Il risultato, in termini di evoluzione storica, fu l’avvento di quella che Williams e Srnicek definiscono “era della post-politica”, caratterizzata da una sempre più bassa affluenza al voto, sintomo di una progressiva sfiducia verso la politica istituzionale, oltre che un crescente scetticismo verso le grandi meta-narrazioni ideologiche che avevano dominato la scena del XX secolo.

All’interno di questa evoluzione storica anche la composizione dei gruppi sociali affrontò profonde trasformazioni. Con l’arrivo degli anni ’90 il posizionamento della classe operaia come soggetto politico privilegiato appariva del tutto crollato, e al suo posto guadagnò peso un ampio spettro di identità sociali, desideri e critiche a vari tipi di oppressione. Grazie alla loro diffusione in ambito culturale, oltre che al sostegno ricevuto dalla politica mainstream, molti di questi movimenti, come ad esempio quelli femministi e antirazzisti, riuscirono a ottenere successi importanti in termini di riconoscimento sociale e legislazioni specifiche. Le femministe per esempio, riuscirono a ottenere importanti conquiste in termini di parità di salario, diritto all’aborto e servizi per l’infanzia. Ciononostante, l’insieme di questi successi appariva ben poca cosa in confronto al progetto della totale abolizione dell’identità di genere, che caratterizzava le lotte di circa 30 anni prima. In generale, ciò che è mutato con l’avvento del neoliberismo è stato l’aver abbandonato la radicalità con la quale si desiderava trasformare la società. La maggior parte dei risultati attualmente raggiunti dai nuovi movimenti sono infatti limitati dalla cornice egemonica imposta dal neoliberismo, tutta articolata attorno alla priorità dei mercati, a una legislazione di stampo liberale e alla retorica della scelta individuale. In definitiva, a essere marginalizzati sono proprio quegli elementi più radicalmente anticapitalisti che pure erano stati parte integrante di questi progetti.

In conclusione, gli anni ’90 si sono rivelati un campo di stabilizzazione di un processo che aveva visto il crollo delle tradizionali organizzazioni della sinistra e la contemporanea ascesa di una nuova sinistra basata sulla critica alla burocrazia, alla verticalità, all’esclusione e all’istituzionalizzazione. In questo contesto i nuovi desideri sociali, spesso emersi dalla crescente modernità tecnologica, finirono per essere totalmente sussunti all’interno dell’apparato neoliberale. Il neoliberismo era riuscito a imporsi come “unica realtà”, dove qualsiasi tentativo di rinnovamento era incapace di svilupparsi al di fuori di quello stesso recinto ideologico predeterminato dal pensiero neoliberale. L’assenza di alternative, accompagnata dal crescente sentimento di delusione e di sconforto da parte di quanti il cui potere sociale veniva costantemente eroso dal sistema capitalista, finì per divenire la caratteristica portante di qualsiasi lotta politica, così come ben illustrato all’interno dell’opera Realismo capitalista di Mark Fisher.

È proprio in tale contesto che le intuizioni della folk politics hanno avuto modo di diffondersi, sedimentarsi e strutturarsi, fino a caratterizzarsi come il nuovo senso comune della sinistra: tra la metà degli anni ’90 e i primi anni 2000, esperienze come gli zapatisti, gli anti-capitalisti no global, i World Social Forum e le proteste contro la guerra hanno incarnato pienamente i dettami di una folk politics incapace di articolare un progetto complesso che potesse efficacemente mettere fine all’egemonia neoliberale. Prendendo di mira il mercato globale e le istituzioni di governo, questi movimenti hanno tentato di opporsi al neoliberismo e ai suoi portabandiera sia nazionali che industriali, con l’unico risultato di aver niente più che rallentato (e non invertito) l’avanzata inesorabile del dominio neoliberale. Alcuni eventi specifici, come ad esempio i fatti del G8 di Genova nel luglio del 2001, hanno rappresentato delle tappe importanti nel percorso di graduale erosione del potere di questa sinistra.


La crisi del 2008 e la nascita del pensiero accelerazionista


La crisi del 2008 rappresenta la prima grande frattura del capitalismo neoliberale su scala globale. Così come accadde con la socialdemocrazia negli anni ’70, questa crisi offrì un’importante opportunità per trasformare il modello socio-economico di riferimento. Il neoliberismo aveva infatti dimostrato di non essere in grado di affrontare le lacerazioni sociali che esso stesso aveva causato, con la conseguenza che in tutto il mondo si scatenarono tumulti popolari, si elevarono istanze di rinnovamento, nacquero movimenti intenzionati ad abbattere il fragile sistema su cui poggiava il consenso neoliberale. In ognuno di questi casi, tuttavia, l’atteggiamento con cui si organizzarono e mobilitarono le lotte si svolse incarnando pienamente i principi della folk politics. All’interno di uno spettro in cui a essere messi sotto attacco furono l’alta finanza, il debito e la disuguaglianza, questi movimenti non furono in grado di sfruttare la temporanea destabilizzazione dell’egemonia neoliberale per articolare un progetto contro-egemonico veramente in grado di mutare i paradigmi socio-economici di riferimento.

Fra i vari movimenti protagonisti di quella che Williams e Snricek chiamano Fase 2 della folk politics, quello sicuramente più significativo è il caso di Occupy Wall Street. Nato come movimento di contestazione pacifica per denunciare gli abusi del capitalismo finanziario, Occupy aveva portato a occupazioni di piazze e spazi pubblici che solo nel 2011 avevano coinvolto più di 950 città in tutto il mondo. Nonostante la sua variegata composizione interna, la sua radicalità, la forte presenza mediatica, oltre che una capacità organizzativa particolarmente sofisticata (ad esempio nell’utilizzo degli spazi occupati come quartier generale per la formazione dei militanti), alla fine questo movimento si perse in un logorante e lento naufragio al termine del quale il neoliberismo riuscì a riacquistare la solidità temporaneamente persa. Secondo gli autori accelerazionisti, gli elementi folk politics di questa esperienza vanno imputati a un eccesso di orizzontalismo. Il rifiuto di organizzazioni verticali aveva infatti impedito la creazione di strutture che avrebbero più facilmente permesso la costruzione di ponti con altri gruppi potenzialmente alleati, con il risultato che divenne più difficile per loro difendersi dagli attacchi dello Stato. Allo stesso modo l’eccessiva predilezione per la democrazia diretta, in particolare attraverso l’utilizzo dell’assemblea generale a ogni livello decisionale, aveva comportato forti limiti in termini di programmazione politico-strategica. Infine la lotta continua, del resto necessaria all’interno di un paradigma che si fondava sulla persistente ripetizione di azioni dirette, aveva finito per tradursi in effetti localizzati e temporanei, impedendo così di ampliare le rivendicazioni popolari su un piano astratto, ideologico e universale. Quando risultò ormai chiaro a tutti che la fiamma rivoluzionaria stava iniziando a spegnersi, il neoliberismo era già riuscito a riappropriarsi della responsabilità di “risolvere” quella stessa crisi che aveva causato.

Il fallimento della folk politics portò a due conseguenze importanti. La prima fu un’intensificazione dei programmi neoliberali: con la consapevolezza che non vi fosse alcuna alternativa alla crisi se non attraverso quelle stesse ricette di cui il sistema si nutriva da decenni, i primi anni ’10 furono investiti da quello che all’interno del Manifesto Accelerazionista viene chiamato Neoliberismo 2.0. Ebbe inizio un nuovo ciclo di aggiustamenti strutturali, in particolare incoraggiando nuove ed aggressive incursioni del settore privato in ciò che rimaneva del Welfare State, e come conseguenza la disuguaglianza economica (già in forte crescita dagli anni ’70) attraversò un’intensificazione senza precedenti. Nonostante tali politiche comportarono fin da subito effetti negativi sul piano socio-economico, il tutto si svolse di fronte alla continua paralisi e alla natura inconcludente di buona parte di ciò che rimaneva della sinistra. Inoltre, nella maggior parte dei casi queste manovre furono attuate proprio da quei partiti che, almeno sulla carta, rappresentavano l’eredità diretta della tradizione politica socialista occidentale. L’effetto di questo “tradimento delle sinistre parlamentari” si tradusse in una maggiore disillusione popolare nei confronti della politica, dando così spazio all’emersione di nuove destre radicali nel panorama politico.

La seconda conseguenza del fallimento della folk politics fu l’apertura di un importante dibattito interno alla sinistra. Se neanche un’esperienza di lotta tanto radicale, globale ed esplicitamente anti-capitalista come Occupy Wall Street era riuscita a scalfire il potere del neoliberismo, allora era necessario impegnarsi in un’analisi profonda capace di spiegare un tale insuccesso. Dai dibattiti che ne scaturirono, per lo più in ambienti accademici anglosassoni, emerse con forza una corrente che da tempo criticava le istanze fortemente primitiviste della sinistra, una sinistra che appariva ancora troppo ancorata a quegli stessi paradigmi ideologici che avevano dominato la scena del XX secolo e che non era riuscita a stare al passo con le trasformazioni che nel frattempo avevano investito l’umanità. La questione cruciale consisteva nella sua incapacità di formulare un’alternativa valida al modello neoliberale, che non consistesse in una semplice reinterpretazione del vecchio modello socialdemocratico. Ma per farlo, era necessario adoperarsi in un’analisi che avesse il coraggio di rimettere in discussione in maniera radicale anche gli assunti di cui la sinistra tradizionalmente marxista si era da sempre nutrita, all’interno di un ampio discorso che spaziasse dalla necessità di inventare un nuovo modello socio-economico fino al ripensamento dei metodi di costruzione del potere.

L’esito di questo dibattito fu la pubblicazione, nel 2013, del Manifesto per una politica accelerazionista ad opera di Alex Williams e Nick Srnicek. All’interno di questo documento emergono con chiarezza le istanze di riformulazione radicale dei metodi di costruzione del potere di cui la sinistra deve necessariamente farsi carico. Riprendendo direttamente le parole del testo: «Crediamo che la distinzione più importante della sinistra di oggi si trovi tra coloro che si attengono ad una politica del senso comune [folk politics] basata su localismo, azione diretta ed inesauribile orizzontalismo e coloro che delineano ciò che deve dovrebbe chiamarsi una politica accelerazionista, a proprio agio con una modernità fatta di astrazione, complessità, globalità e tecnologia. I primi si ritengono soddisfatti con la creazione di piccoli spazi temporanei di relazioni sociali non capitalistiche, evitando i problemi reali connessi a nemici che sono intrinsecamente non locali, astratti, e profondamente radicati nelle infrastrutture di tutti i giorni. Il fallimento di tale politica si trova fin dal principio costruito al suo interno. Al contrario, una politica accelerazionista cerca di preservare le conquiste del tardo capitalismo, e allo stesso tempo di andare oltre ciò che il suo sistema di valore, le sue strutture di governance e le sue patologie di massa permettano».

L’accelerazionismo nasce dunque come risposta al fallimento di una sinistra incapace di costruire realmente un potere alternativo al modello neoliberale, e per questo motivo denominata folk politics. Una politica accelerazionista è infatti una politica che si impegna nell’articolazione di un’alternativa complessa, astratta, e in grado di tener conto delle trasformazioni operate dalla tecnologia. Altresì, una politica accelerazionista è tale nel momento in cui si impegna a ripensare da zero i metodi di costruzione del potere, al fine di mettere in campo una lotta che si ponga come supremo obiettivo non quello di resistere agli attacchi del capitale, bensì quello di articolare un piano lungimirante verso il superamento del capitalismo. All’interno di questo paradigma, diversamente da quanto si svolge nella folk politics, i principali parametri di valutazione non sono più solo l’impegno e il coraggio nel lottare, bensì l’efficacia e il raggiungimento dell’unico obiettivo che conta: la vittoria sul capitalismo.

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